Di generazione in generazione…

25 ìàÿ 2011 ã.

Per i settant’anni di padre Vorob’ëv, rettore dell’università ortodossa San Tichon, la «Rivista del patriarcato di Mosca» gli ha fatto un’ampia intervista che pubblichiamo di seguito. Anche se il lettore italiano non riesce a cogliere tutto lo spessore dei molti personaggi citati da padre Vladimir come suoi maestri e compagni nella vita, torna alla mente la genealogia evangelica che assicura il perpetuarsi dell’alleanza tra Dio e il popolo eletto, la continuità della Chiesa. Parallelamente al regime, alle sue persecuzioni e campagne antireligiose continuò a esistere, per decenni, un mondo silenzioso e nascosto che – direbbe Solz°enicyn – è «il giusto senza il quale non esiste né il villaggio, né tutta la terra nostra». Dalla radice di questa testimonianza umile ed eroica, che non ha mai rinunciato a un rapporto libero e creativo con la cultura, la scienza, il bello, è nato vent’anni fa un progetto educativo cristiano che nel tempo ha dato vita addirittura a un’università.

 

Padre Vladimir, ci parli della sua famiglia. Suo nonno, Vladimir Nikolaevic° Vorob’ëv, era parroco della chiesa di San Nicola sull’Arbat, membro del consiglio diocesano ai tempi del santo patriarca Tichon… Che ricordo se n’è conservato in famiglia?

Non ho conosciuto mio nonno. Veniva dal governatorato di Saratov, da una famiglia contadina. Il fattore gli insegnò a leggere e a scrivere insieme ai suoi figli e poi lo aiutò a continuare gli studi. Il nonno volle entrare in seminario, poi si sposò, venne ordinato sacerdote e inviato come cappellano presso un monastero femminile della regione, nel distretto di Achtyrka. Lì nacque mio padre, Nikolaj. Nel 1910 tutta la famiglia si trasferì a Mosca, dove il nonno si laureò all’Istituto di archeologia, mentre mio padre frequentava il ginnasio. Nel 1918 il nonno venne nominato parroco della chiesa di San Nicola dei Carpentieri sull’Arbat, al posto di padre Iosif Fudel’, morto poco tempo prima. Il patriarca Tichon conosceva bene il nonno e veniva spesso a celebrare da lui. Anche il metropolita Pëtr (Poljanskij) lo aveva molto caro.

Il nonno fu arrestato una prima volta nel 1924, e fu rimesso in libertà dopo sei mesi di prigione. Subì un secondo arresto nel 1930. Il suo inquirente fu Kazanskij, uno «specialista» dei processi contro i fedeli, ormai notorio per la sua crudeltà; lo strattonava per la barba, gli spianava in faccia la rivoltella gridando: «Arrenditi, canaglia!». Alla fine il nonno fu condannato a 10 anni di lager, da scontare nei campi del Nord, a Sevlag. Nel 1933 fu «dimesso» dal lager per motivi di salute: non poteva lavorare a causa di una malattia cardiaca, e quindi fu deportato a Spassk sul Volga, sotto Kazan’. Nel 1938 venne nuovamente arrestato in loco, e nel 1940 morì in prigione di infarto. Così, quando l’anno dopo io nacqui, i miei genitori mi chiamarono Vladimir in sua memoria.

Il nonno materno, Pavel Petrovic° Rjabkov, era generale dell’esercito zarista, partecipò alla prima guerra mondiale, fu smobilitato per motivi di salute e morì a Saratov nel 1921.

I miei genitori hanno insegnato per tutta la vita, mio padre all’università statale, mia madre alla scuola elementare. Mio padre era nell’ultimo gruppo di studenti di filosofia che fece in tempo a studiare secondo i programmi di prima della rivoluzione. Nel suo gruppo, in maggior parte erano figli spirituali dei padri Aleksij e Sergij Mec°ëv. E tra gli insegnanti c’erano Il’in, Frank e altri celebri professori dell’epoca prerivoluzionaria. Nel 1922 mio padre li aiutò a impaccare i libri, quando vennero mandati in esilio all’estero. All’università statale mio padre non aveva altra possibilità che quella di insegnare logica formale, perché a parte lui e Valentin Asmus tutti erano iscritti al partito, e l’insegnamento era interamente orientato sul marxismo, che mio padre invece non tollerava.

 

Quali sono i ricordi più vivi che ha dell’infanzia?

I ricordi più vivi, nell’infanzia come nella maturità, sono le persone che ci circondavano. Intorno alla nostra famiglia c’erano tante persone straordinarie, portatrici della tradizione culturale russa. La mia famiglia abitava in un’unica stanza in un appartamento in coabitazione, la vita era dura, ma aveva un senso: custodire la fede, l’unità con i pochi esponenti della tradizione ecclesiale rimasti, che erano per noi l’anello di congiunzione con i santi martiri e confessori. Si ricercava la loro compagnia, si tentava di seguirli sulla strada verso Cristo.

 

In quali chiese andavate negli anni Quaranta e Cinquanta?

Non si può neppure dire così… Andare in chiesa regolarmente, come ora, era impossibile, tanto più per i miei genitori in quanto insegnanti, e anch’io sarei stato cacciato di scuola. La chiesa più vicina a casa era la missione di Gerusalemme. Mia madre mi ci condusse quando avevo sette anni per la prima confessione, dal parroco padre Aleksandr Skvorcov, che aveva conosciuto il nonno per aver fatto parte del suo decanato. Lui mi portò subito sull’altare, dietro l’iconostasi, e mi confessai. Per me quello fu un giorno indimenticabile. Era un sacerdote straordinario, poi ho saputo che era il padre spirituale del clero moscovita. Al termine della confessione, disse alla mia mamma: «Diventerà sacerdote».

Effettivamente, fin dall’infanzia ho sempre aspirato a questo ministero. Forse per quello che mi raccontavano del nonno. Poi padre Aleksandr morì. E dall’inizio degli anni Sessanta cominciai a frequentare la chiesa del profeta Elia «D’un sol giorno»[1], dove andavano anche alcuni cantori e vari fedeli della parrocchia del nonno e si riuniva l’intelligencija credente «sopravvissuta».

 

Le vostre famiglie cercavano di restare unite, di far crescere insieme i rispettivi figli?

I nostri genitori facevano di tutto in questo senso, e inizialmente io ero in classe insieme ad Aleksandr Saltykov e ad Aleksandr S°c°elkac°ev, oggi entrambi sacerdoti. Ma poi ci dispersero in vari istituti, e alla fine della scuola, su 40 alunni, in classe io ero l’unico credente.

 

Come mai ha deciso di andare all’università?

Io volevo fare lo storico, ma mio padre mi disse: «Vedi, in questo campo tu non potrai mai scrivere niente, perché sei credente mentre lì occorre essere del partito, sovietici». In un primo momento decisi di lasciar perdere, sebbene avessi ottenuto il diploma finale con la medaglia. Poi però mi convinsero che anche in fisica esistevano problemi filosofici, e che alla Chiesa servivano scienziati cristiani. Così mi iscrissi alla facoltà di fisica. Studiare era interessante, anche se avrei voluto lavorare per la Chiesa: ma di entrare in seminario negli anni Sessanta nella mia situazione non se ne parlava neppure.

 

A quell’epoca il suo padre spirituale era l’igumeno Ioann (Seleckij). Come l’ha conosciuto? Lui viveva nella regione di Ternopol’, in Ucraina, e da Mosca non era certo facile arrivarci.

Padre Ioann (è morto nel 1971) era una persona straordinaria. Figlio di un sacerdote, al termine del seminario aveva fatto l’università a Mosca, poi si era laureato in filosofia a Göttingen. Tornato a Mosca, nel 1921 fu ordinato sacerdote a Elisavetgrad e subito si trovò coinvolto nella battaglia contro lo scisma degli «innovatori». Alcuni suoi parrocchiani, trasferitisi a Mosca, cominciarono a frequentare la chiesa del nonno, e così i due sacerdoti fecero amicizia. Anzi, in occasione di un viaggio a Mosca di padre Ioann, il nonno lo presentò al metropolita Petr (Poljanskij) indicandoglielo addirittura come un possibile candidato all’episcopato. Padre Ioann subì due arresti, nel 1930 e nel 1938. Quando, nel dopoguerra, venimmo a sapere che viveva a Kremenec, non lontano dalla Lavra di Poc°aev, cominciammo a scrivergli, e finalmente ci diede il permesso di andare a trovarlo. Lo vidi per la prima volta nel 1964: davanti a me c’era uno starec che aveva conosciuto di persona il patriarca Tichon, il metropolita Pëtr e molti altri santi – la sua persona era storia vivente. Ed era un uomo di cultura europea, che conosceva le lingue antiche e moderne, cantava magnificamente, dipingeva icone. Ma soprattutto, era un santo. Viveva in un villaggio alla periferia di Kremenec con il divieto di allontanarsene e celebrava in casa. Aveva celebrato per qualche tempo alla Lavra di Poc°aev, ma l’avevano cacciato negli anni delle persecuzioni chrus°c°eviane, quando la Lavra venne colpita in maniera particolarmente pesante. Divenne il mio padre spirituale.

 

E quando sono entrati nella sua vita padre Vsevolod S°piller e padre Pavel (Troickij)?

Quando padre Ioann si ammalò gravemente riuscimmo a trasferirlo a Mosca. Bisognava amministrargli i sacramenti, cosa non facile a quel tempo. Ci indicarono padre Vsevolod, e lui accettò di venire a casa nostra, per confessare e comunicare padre Ioann. Ho avuto occasione di vederlo da vicino, padre Vsevolod, e devo dire che mi colpì immediatamente. Non solo per la sua erudizione o per la sua intelligenza, ma in primo luogo per la sua amorevolezza, per come si prese a cuore le sofferenze di padre Ioann.

Alla morte di padre Ioann mi rivolsi per consigli a uno starec che viveva in clausura, Pavel (Troickij). E lui mi scrisse: «Va’ da padre Vsevolod, questa è la volontà di Dio». Così dal 1971 divenni uno dei figli spirituali di padre Vsevolod. Padre Pavel e padre Vsevolod erano molto uniti fra loro, e seguivano insieme il gruppetto di giovani che frequentava la chiesa di San Nicola dei Fabbri (parecchi di loro oggi sono sacerdoti o docenti della nostra università San Tichon, come Aleksandr Saltykov, Valentin Asmus, Nikolaj Emel’janov, Efimov e altri ancora); era una vita felice la nostra, sotto le ali di padre Vsevolod!

Quando padre Vsevolod si ammalò e poi morì, padre Pavel si fece carico di noi. Aveva il dono della chiaroveggenza, ci rispondeva ancor prima che gli scrivessimo o gli esprimessimo idee o dubbi, e prediceva avvenimenti futuri quando voleva rinfrancare qualcuno in circostanze dolorose. Era straordinariamente amorevole, tenero, e al tempo stesso severo e spiritualmente esigente. Non tollerava alcun formalismo, non ricercava alcuna gloria esteriore. «Voglio morire nell’anonimato, come sono morti milioni di credenti russi», ci scrisse poco prima di morire.

 

Quando è entrato in seminario?

Alla fine degli anni Settanta padre Vsevolod mi aveva dato la sua benedizione per il sacerdozio, dicendomi però: «Hai la mia benedizione, ma come la realizzerai, non so». Per entrare in seminario bisognava lasciare l’Accademia delle scienze e andare a lavorare presso una chiesa come custode, tecnico delle caldaie o mansioni del genere. Ma nessuno si azzardava ad assumermi, perché bisognava rendere conto dei propri dipendenti davanti al delegato del Soviet per gli affari religiosi: «Come mai ha assunto come custode uno scienziato?». Inaspettatamente, invece, su richiesta di uno dei preti della parrocchia di San Nicola, accettò di assumermi Nikolaj Kapc°uk, starosta della cattedrale patriarcale della Teofania.

Così dall’inverno del 1978 divenni sacrestano della cattedrale, e sei mesi dopo entrai in seminario. Ma anche lì entrare non era facile. Alla mia richiesta, il rettore (monsignor Vladimir, attualmente metropolita di Kiev) rispose: «Bisogna che lei consegni i documenti il 31 luglio dalle quattro alle cinque. Assolutamente non prima». E mi spiegò che i funzionari del Soviet per gli affari religiosi venivano in seminario e ritiravano tutti i documenti dei candidati per controllarli: «Se controllassero i suoi documenti, non la ammetterebbero di certo. Ma la loro giornata lavorativa finisce alle cinque, e quindi escono di qui alle quattro per timbrare in ufficio. Invece noi restiamo aperti ancora fino alle cinque. Se in quel lasso di tempo lei ci porta i documenti, resteranno a noi. E poi non si faccia trovare in casa finché non avremo pubblicato la sua iscrizione». Così feci. Quando risultai iscritto al seminario tornai a casa, e la cassetta postale era traboccante di lettere con l’ingiunzione a presentarmi alla leva militare proprio nel periodo degli esami in seminario. Ma io non ero in casa, e non ne avevo avuto notizia…

 

Qual era la cerchia delle sue conoscenze negli anni Settanta? Come vi incontravate?

Il Signore ha avuto la bontà di farmi conoscere molte persone straordinarie. La mia famiglia era legata da amicizia ai Fudel’. Io ho fatto in tempo a conoscere gli starcy dell’eremo di Glinsk: ho visto l’archimandrita Serafim (Romancov), sono stato dal metropolita Zinovij a Tbilisi, andavo spesso da padre Tavrion nel suo eremo nei dintorni di Riga, conoscevo padre Aleksij Beljaev, che era il padre spirituale al monastero di Pjuchticy, l’archimandrita Serafim (Tapoc°kin), che mi predisse anche lui che sarei diventato prete. Ancora studenti andavamo all’eremo di Optina, allora in rovina…

Alla fine degli anni Sessanta avevo fatto conoscenza con lo scienziato Gleb Aleksandrovic° Kaleda, che a quel tempo non era ancora prete. Ricordo come alla domenica mattina, per la prima messa, nei vicoli adiacenti al metro Kropotkinskaja Gleb Aleksandrovic° si dirigesse a grandi passi verso la chiesa di Sant’Elia – sembrava che non toccasse terra – con i figlioli che gli correvano dietro come pulcini…

Da giovani eravamo dinamici, ci spostavamo parecchio. Il vescovo Stefan (Nikitin) me l’aveva fatto conoscere nel 1962 un figlio spirituale del nonno, Vladimir S°c°elkac°ev, che era stato con lui in prigione. A Pietroburgo conoscevo padre Evgenij Ambarcumov, che da giovane era stato tra i più vicini a padre Pavel (Troickij), e la sua famiglia. Furono loro a portarmi dall’arcivescovo Meliton di Tichvin (Solov’ëv, morto nel 1986). E sono rimasto vicino fino all’ultimo a padre Viktor S°ipoval’nikov (morto nel 2007), negli ultimi tempi gli portavo i sacramenti, ho concelebrato al funerale. Padre Viktor custodì segretamente per anni le reliquie del monastero di san Serafim di Sarov, tra cui la sua icona della «Madre di Dio della Tenerezza». Per oltre dieci anni il Signore mi ha concesso la grazia di vedere e pregare regolarmente davanti a quest’icona miracolosa.

 

Che ricordo ha degli anni Ottanta?

 Nei primi dieci anni dopo l’ordinazione ha fatto in tempo a celebrare in tre chiese. Nella prima, a Kolomenskoe, mi misero alla porta dopo solo un anno e mezzo. Le lunghe file di gente per la confessione e i giovani che venivano regolarmente alla liturgia, chiaramente, facevano paura a tutti…

Quando rimasi senza posto, avevo quattro bambini piccoli. Ma non ebbi particolari problemi o esperienze dolorose, perché padre Vsevolod mi chiamò a lavorare da lui in parrocchia per quasi due mesi, finché mi assegnarono una nuova chiesa, accanto al cimitero della Trasfigurazione, dove restai quasi cinque anni.

Intanto, i giovani che venivano a Kolomenskoe mi seguirono nella nuova parrocchia. Cominciarono a chiedermi: «Che cosa c’è dietro?». In realtà, io non facevo altro che celebrare, confessare, battezzare, sposare, non commettevo nessun atto perseguibile a termini di legge. Eppure mi convocarono più volte al comitato esecutivo e dopo cinque anni, visto che lo scontento continuava a crescere, mi trasferirono a Ves°njaki.

La chiesa della Dormizione a Ves°njaki era all’altro capo della periferia di Mosca. Mancava l’aria, la gente era talmente stipata da rompere i vetri delle icone appese. Non c’era domenica in cui non chiamassimo l’ambulanza per soccorrere qualche vecchietta che si era sentita male per la ressa. I parrocchiani erano gente molto semplice, e quindi i miei giovani vennero ben presto notati. Mi dicevano: «Ma cosa vengono a fare qui? Meglio se andassero da un’altra parte». E io: «Insomma, dovrei uscire sull’altare e dire: non venite più in chiesa?». «Proprio, che vadano vicino a dove abitano». Io però rimasi sempre zitto. E di lì a un po’ di tempo mi riferirono: «Il delegato del Soviet chiede: ma si è ravveduto o no il vostro Vorob’ëv?». «Beh, e che cosa che avete risposto?». «Gli abbiamo detto che si è già ravveduto al 70%». «E perché non al 100%?». «Perché non si può, tutto d’un colpo».

Insomma, era brava gente. E negli ultimi tempi sono riuscito anche a organizzare un coro, il primo nucleo della futura facoltà di canto liturgico all’università San Tichon. Qui hanno cominciato a cantare anche adolescenti. I bambini facevano lezione di canto solo nelle case private, perché cantare in chiesa era proibito ai minori. Ma nel 1990-1991 abbiamo pubblicato il primo disco del nostro coro di voci bianche. Un avvenimento.

 

Nel momento di passaggio tra gli anni Ottanta e Novanta sono stati un avvenimento anche le sue lezioni, i suoi corsi di catechesi, e poi la nascita della Fraternità del Salvatore Misericordioso…

Già alla fine degli anni Ottanta avevamo organizzato un primo ciclo di quattro lezioni in un cinema nel quartiere sud-ovest. Un secondo ciclo l’abbiamo tenuto alla Krasnaja Presnja. Poi abbiamo preso in affitto la Casa della cultura vicino alle tre stazioni e abbiamo cominciato a svolgere cicli annuali di lezioni. Dopo due anni gli ascoltatori ci hanno detto: «Ma non si potrebbe pensare a una cosa più seria?». Così abbiamo deciso di organizzare dei corsi per catechisti. Proprio in quel periodo stava nascendo l’Unione delle fraternità ortodosse. La nostra Fraternità del Salvatore Misericordioso, che riuniva i sacerdoti legati a padre Pavel (Troickij) e a padre S°piller, ed era divenuta ben presto molto numerosa, si è assunta la responsabilità dell’educazione (era una delle 15 sezioni di operato delle fraternità ortodosse), sotto la guida di padre Gleb Kaleda. In seguito, da essa è nato il Dipartimento sinodale per la formazione religiosa e la catechesi. Quanto a me, sono stato nominato rettore dei corsi di catechesi, che nell’arco di qualche tempo si sono trasformati in un istituto di teologia posto sotto il patronato del patriarca Aleksij II, che lo volle intitolare al santo patriarca Tichon.

 

Come sono cambiate nel tempo le finalità dell’Istituto San Tichon? Come giudica la sua attività di questi anni?

Quando entrai in seminario, una volta il futuro rettore archimandrita Aleksandr (Timofeev) mi chiese: «Che cosa bisogna fare, secondo te, perché il nostro istituto cresca e si sviluppi?». E io risposi, senza pensarci due volte: «Bisogna far venire professori dall’università». «Vuoi dire laici, gente in giacca e cravatta?». «Sì, laici». «No, non fanno per noi». La separazione tra i due mondi, allora, era totale.

Una volta in seminario, mi resi conto che per gente adulta come me lì non c’era posto: avevo già tre figli, e dopo essere stato ammesso per miracolo in seminario non potevo restarci a lungo, perché dovevo mantenere la famiglia. La via del sacerdozio attraverso il seminario era preclusa alle persone adulte, per quanto la loro scelta fosse seria e ponderata. Per questo inizialmente il nostro istituto si rivolse appunto a queste persone, che avevano bisogno di continuare a lavorare pur preparandosi agli ordini sacri, offrendo loro dei corsi serali.

Ma all’inizio degli anni Novanta divenne chiaro che la Chiesa aveva tra le sue priorità il compito di occuparsi dei giovani. Era quello che aveva detto poco prima di morire, nel 1983, padre Vsevolod: «Presto il regime sovietico crollerà e i giovani si riverseranno nelle chiese. Ma chi li accoglierà? Non c’è nessuno che sia in grado di farlo…». Ed effettivamente i giovani si riversarono nelle chiese, e lo spazio fondamentale di lavoro con loro era l’ambito della cultura, dell’educazione, la scuola.

Forse, uno dei risultati principali raggiunti dalla nostra università, sorta nel 1992, è il riconoscimento della necessità di formalizzare l’attività educativa della Chiesa e l’elaborazione di modelli formativi pluriconfessionali. È una parte importante nella grande opera di legalizzazione della vita ecclesiale nella Russia di oggi. Molte cose che adesso ci sembrano scontate, all’inizio degli anni Novanta furono delle conquiste: ad esempio entrare in dialogo con il Ministero dell’istruzione e legalizzare l’istruzione ortodossa come tale.

Grazie a Dio, nella Chiesa si trovarono molti ottimi insegnanti. I primi anni lavorarono praticamente gratis. Non c’erano soldi, non c’erano locali. La loro era veramente un’opera disinteressata, un sacrificio per il bene della Chiesa.

 

Quali sono state le reazioni all’interno della Chiesa? Che risultati ha conseguito finora l’università?

Non è un segreto che perfino all’interno della Chiesa inizialmente fossimo guardati con un certo sospetto. C’era chi pensava che l’istituto fosse stato architettato da «avventurieri» che volevano cambiare e «riformare» tutto. In realtà, si è visto che la nostra attività era estremamente necessaria e richiesta sia a Mosca che in provincia. Alla fine degli anni Novanta l’istituto aveva filiali in 13 diocesi, e questi «punti educativi» hanno significato molto per lo sviluppo della vita diocesana. In contesti in cui non esisteva nessuno in grado di lavorare nel campo dell’istruzione religiosa, grazie alle filiali sono apparse nuove persone, che localmente sono diventate una sorta di lievito. Parecchi dei nostri ex studenti sono andati a lavorare nei seminari che via via si aprivano, e poi nelle nuove cattedre di teologia: oggi in Russia ne esistono 40, in maggior parte all’interno di università statali. E la loro presenza influisce significativamente sull’atmosfera dell’intera università, come dimostrano varie esperienze: è un autentico e fecondo lavoro missionario.

Finora l’università San Tichon ha licenziato circa 3.500 laureati, di cui oltre 300 sacerdoti; ha pubblicato un migliaio di titoli (ricerche, saggi, manuali); il data base elaborato da Nikolaj Emel’janov raccoglie materiali su oltre 33.000 martiri e confessori per la fede del XX secolo.

 

E in questi vent’anni come sono cambiati gli studenti? Che cosa si è dovuto modificare nel processo didattico?

È radicalmente mutata sia la situazione in generale, sia il tipo di studenti. Oggi gli utenti dei corsi serali sono notevolmente diminuiti rispetto agli iscritti alla sezione diurna, sebbene numericamente siano rimasti pressoché invariati. Se un tempo tutti i ragazzi volevano farsi preti, e le ragazze dedicarsi alla parrocchia, ora desiderano semplicemente essere ortodossi e nel contempo avere una buona preparazione, secondo un vasto spettro di indirizzi (attualmente la nostra università possiede 10 facoltà). In questa nuova situazione, abbiamo ridato vita all’istituto teologico, pensandolo come scuola di formazione pastorale per quanti desiderano dedicarsi a Dio nel sacerdozio. È possibile frequentare contemporaneamente sia l’università che l’istituto teologico.

 

Quali sono, a suo giudizio, i problemi principali della vita ecclesiale oggi? C’è qualcosa che La preoccupa in particolare?

Credo che per tutto occorra tempo. Un bambino ha bisogno di nove mesi per nascere, e allo stesso modo il retaggio del XX secolo non può essere superato di colpo. Questo vale per la coscienza della gente come per le questioni giuridiche e il livello culturale all’interno della Chiesa.

Io vorrei che nella Chiesa si prendesse maggiormente coscienza della necessità della formazione. È diffusa la tentazione di pensare che una buona cultura sia un lusso superfluo e un po’ mondano, mentre, in realtà, senza cultura è impossibile essere missionari, adempiere il comandamento: «Andate e ammaestrate tutte le genti» (Mt 28,19).

È necessario che i credenti possano lavorare in qualunque campo, solo così potremo abbattere il muro di separazione tra la Chiesa e la società. La società deve rendersi conto che la Chiesa è portatrice dei tesori della cultura, della bellezza. Solo allora si aprirà una nuova pagina nella vita del nostro popolo.

Inoltre, vorrei che ci fosse meno diffidenza. Anche la diffidenza è una pesante eredità del passato sovietico. Fino a poco tempo fa, si era sovente inclini a vedere dappertutto agenti segreti del KGB. Sospettosità e diffidenza nei confronti gli uni degli altri sono un male che ferisce dolorosamente, è portatore di un’energia distruttiva.

Ora per molti aspetti i tempi duri sono tramontati, siamo grati alla paternità del patriarca, al sostegno dei vescovi, all’aiuto di volontari, benefattori, collaboratori che hanno creduto in quest’opera, vi hanno preso parte spendendovi tempo, risorse ed energia. Adesso abbiamo aule, biblioteche, un convitto, la mensa. Per molti la nostra università è diventata casa loro. Ma non dobbiamo dimenticare che viviamo e lavoriamo, oggi come ieri, nella Chiesa e per la Chiesa. E non c’è gioia più grande che vivere in Cristo, non ci può essere desiderio più grande che servire Cristo ed essergli fedeli in ogni cosa.



[1] Così venivano chiamate le chiese (in legno) costruite per voto nel corso di una sola giornata, con grande concorso di popolo. ndt

Intervista Di Sergej Čapnin

Ïåðåâîä Äæîâàííû Ïàððàâè÷èíè, 2011