In questa relazione, presentata nel maggio scorso a un’assemblea di giornalisti ortodossi riuniti a Salonicco, l’autore ha offerto una vasta panoramica dei problemi e delle sfide che si pongono alla Chiesa, sullo sfondo della campagna mediatica che negli ultimi mesi va esasperando i toni, e a fronte di una generale impreparazione dei cristiani a dare testimonianza della propria fede nel mondo che li circonda.
L’esperienza di Chapnin e di un gruppo di amici che hanno dato vita all’associazione «Artos», ha avuto modo di confrontarsi in settembre con quella del «Baglio», durante il XX LabORAtorio di Arti e Architettura per la Chiesa, dal titolo «La bellezza che salva», svoltosi a Monreale grazie all’ospitalità dell’arcivescovo Michele Pennisi.
Il LabORAtorio ha visto momenti di commossa preghiera comune davanti a un’antica icona della Madre di Dio Odigitria, ritornata per l’occasione nel duomo di Monreale dopo più di due secoli, e si è concluso con la Messa nel duomo e la celebrazione della Divina liturgia nella chiesa ortodossa di Sant’Alessandro a Palermo. Non una semplice collaborazione, come ha detto qualcuno, ma una reale esperienza di comunità, che si prefigge in prospettiva di proseguire un cammino di riflessione e di lavoro comune.
Come ha concluso Calogero Zuppardo, responsabile del «Baglio»: «Ora è più chiaro il nostro compito! Viviamo in un mosaico sempre più variegato, e se questo ha un centro ogni tessera ha un significato, è accolta e abbracciata. Senza un centro, invece, ogni tessera perde di significato e tutto diviene caotico. La nostra responsabilità di cattolici e ortodossi è recuperare l’unità per affermare la presenza di Cristo, il solo che ricapitola e abbraccia tutte le cose e tutta la storia, come il Pantocratore di Monreale».
Il convegno che ci riunisce è un evento storico. Nel maggio 2014 rappresentanti delle Chiese ortodosse locali si sono riuniti per la prima volta per scambiarsi esperienze ed esaminare i problemi legati alle peculiarità dell’annuncio cristiano nel contesto della società informatica. Sì, non mi sono sbagliato – è davvero la prima volta, perché i giornalisti ortodossi si erano riuniti insieme solo 15 anni fa, quando ancora non esistevano né social network, né formati multimediali, e la maggior parte delle Chiese locali non aveva esperienza di lavoro in internet, né possedeva servizi d’informazione o sale stampa.
Sono grato agli organizzatori – l’Assemblea interparlamentare dell’ortodossia – per avermi invitato al convegno e in particolare per avermi offerto la possibilità di intervenire. Vorrei innanzitutto condividere con voi alcune impressioni su ciò che si è riusciti e su ciò che non si è ancora riusciti a fare nell’ambito del nostro tema.
In primo luogo, ho notato da parte dei partecipanti un grandissimo desiderio di discutere questi problemi, non soltanto in forma di relazioni e brevi domande ai relatori, ma anche attraverso presentazioni e tavole rotonde, cioè in formati maggiormente orientati al dialogo e allo scambio di esperienze. Spero che troveremo la possibilità di proseguire il discorso iniziato.
D’altro canto, devo constatare con tristezza, direi addirittura con amarezza, che oggi il nostro dialogo sul tema «La Chiesa e i mass-media» si sviluppa in una prospettiva profondamente – direi disperatamente – secolare. Fedeli laici, clero, episcopato usano il linguaggio della società informatica per descrivere la propria attività, senza fare alcun tentativo di adattarlo al contesto ecclesiale, e trascurano il compito di riflettere sulla società informatica in una prospettiva teologica e di prassi ecclesiale.
Riusciremo a porre rimedio a questa situazione? Io sono ottimista e disposto a rispondere di sì, ma a condizione che si intraprendano seri sforzi per sviluppare una teologia dell’immagine[1], una teologia della comunione (della comunicazione)[2] e un’estetica teologica[3].
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Il mondo nel quale viviamo si distingue notevolmente dal mondo in cui sono vissute molte generazioni di nostri avi. Ma è ancor più importante riconoscere un’altra cosa: il nostro mondo si distingue notevolmente dal mondo in cui si sono formate e sviluppate la tradizione e la cultura cristiana nel senso lato della parola.
Lo sviluppo impetuoso delle diverse tecnologie alla fine del XX secolo ha cambiato radicalmente la nostra immagine della vita e il nostro sguardo sul mondo. La tecnologia al servizio della vita quotidiana ci ha liberato da tante cure in cui gli uomini hanno speso molte forze e tempo nel corso dei secoli. All’uomo si è liberato molto tempo per le relazioni. Rispondendo a questa esigenza di relazioni, le nuove tecnologie di informazione e comunicazione offrono la possibilità di comunicare istantaneamente, in pratica, con ogni punto del mondo, di creare e mantenere propri contatti nel social network, di comunicare in forma anonima o mediante pseudonimi. Tutto questo è molto importante, ma non è l’essenziale.
Disinformazione quotidiana
Nell’uomo moderno l’immagine del mondo si forma non tanto attraverso relazioni personali, quanto sulla base delle informazioni ricevute attraverso i media. Questo ha i suoi svantaggi ma anche i suoi svantaggi. Il problema principale, posto ma non ancora riconosciuto dalla società moderna, è il prevalere delle conoscenze teoriche sulle esperienze pratiche. Il mondo, recepito attraverso il prisma mediatico, diventa frammentario, «clippizzato». Nel giudizio sugli avvenimenti dominano emozioni o posizioni ideologiche, la componente morale normalmente viene ignorata, appaiono possibilità senza precedenti di manipolare la coscienza umana, i valori cristiani vengono obliterati.
Questi non sono semplicemente problemi filosofici. Non meno importante è studiare i loro aspetti teologici, pastorali e legati alla prassi ecclesiale.
Le nuove generazioni possono apprendere molte cose: com’è strutturata una stazione atomica e quali composizioni musicali si trovano nelle hit-parade dell’ultimo mese, quali dichiarazioni fa l’amministrazione del Presidente USA e in quale zoo del mondo ieri sono nati dei cuccioli di koala, e molte altre cose ancora…
Eppure l’uomo contemporaneo fa sempre più fatica a provare compassione e amore, ad aiutare il prossimo.
Un ruolo non irrilevante svolgono a questo proposito i notiziari televisivi. È più facile mostrare gli avvenimenti che non analizzarli e commentarli. Esprimendoci nel linguaggio dei giornalisti televisivi, è molto più complesso mostrare un albero che sta crescendo, che non un albero divelto da un tifone. Occorre esperienza per vedere gli avvenimenti e il contesto, discernere una reazione emotiva da un sentimento profondo, un fatto da un commento.
I notiziari mettono a dura prova i fondamenti dell’apologetica cristiana. L’immagine del mondo attuale, che nei notiziari è fatta di guerre, catastrofi, delinquenza, conflitti politici e sociali, priva l’uomo di un punto d’appoggio e rende estremamente annunciare l’amore divino che agisce nella storia. Potremmo dire che sono un’eloquente illustrazione delle parole del Salvatore: «Sentirete poi parlare di guerre e di rumore di guerra. Guardate di non allarmarvi: è necessario che tutto questo avvenga, ma non è ancora la fine. Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi… per il dilagare dell’iniquità l’amore di molti si raffredderà» (Mt 24,6-7,12).
Il carattere escatologico dei notiziari televisivi è rafforzato dal loro ripetersi ad ogni ora. L’uomo contemporaneo non legge ogni giorno la Sacra Scrittura, non ascolta ogni settimana una bella predica, ma ad ogni ora ha la possibilità di vedere una catastrofe, una tragedia o un delitto come notizia principale del giorno. Di conseguenza, il mondo che ci circonda appare ancor più terribile e pericoloso di quanto non sia nella realtà. Dai notiziari scompare la bellezza del mondo. Qui mi riferisco alla bellezza non come a una categoria estetica (da questo punto di vista la televisione ci fornisce, e a volte ci impone, mode e gusti), ma alla bellezza come uno dei concetti centrali della teologia cristiana, alla bellezza che ci invita a conoscere il Creatore.
Tom Fenton, autorevole giornalista americano, afferma che i notiziari dei mass-media, che non hanno uno scopo formativo bensì di intrattenimento, non sono semplicemente irresponsabili ma anche pericolosi.
Disinformazione cristiana
Vi faccio un esempio di come l’informazione tratta da questi notiziari influisca sulla vita della Chiesa. Alcuni anni fa il canale russo NTV il primo giorno di Quaresima ha trasmesso un soggetto della serie «Oggi per gli aborigeni ortodossi incomincia la Quaresima». Per una maggior immediatezza di comunicazione vi si faceva uso di tabelle grafiche: «Da che cosa si astengono gli ortodossi in quaresima». Sullo schermo compare un pezzo di carne, subito dopo barrato da una X rossa. Poi compaiono latticini, e questi pure vengono barrati. Poi appaiono le uova, idem. Infine, vengono visualizzati carote e pomodori, pure proibiti. Resto meravigliato, ma una voce baldanzosa, fuori campo, spiega: «Non si può mangiarli perché sono rossi, e questo è il colore del Sangue di Cristo. Ecco perché sono proibiti». Non restava che ridere di cuore dell’ingenuità ma anche del provocatorio dilettantismo del giornalista.
Tuttavia, la storia non finisce qui. Un paio di settimane dopo, mentre tenevo una lezione ad alcune centinaia di chilometri da Mosca, sono stato testimone di un curioso discorso. Due sacerdoti stavano discutendo di problemi pastorali, e uno dice all’altro: «Sai, per la prima volta quest’anno mi è capitato che le donne anziane venissero a confessarsi di aver mangiato carote e pomodori in Quaresima. Non riesco a capire come mai». L’altro sacerdote meravigliato risponde che a lui non è mai capitato e non sa immaginarsi da cosa dipenda. Se io non avessi visto con i miei occhi quella trasmissione, sarei stato altrettanto perplesso. Per fortuna, ho potuto spiegare il motivo: queste donne guardavano NTV ed essendo abituate dai tempi dell’Unione Sovietica a fidarsi di quello che dice la televisione, faticavano a credere che il giornalista fosse meno competente di loro nelle norme ecclesiastiche. Ma il problema resta: ogni parola detta dagli schermi, anche se irresponsabile, può influenzare la prassi religiosa.
Nella società dell’informatica l’uomo è estraniato dal mondo reale in misura senza precedenti. Nel senso biblico della parola, «conoscere» significa entrare in comunione. Tra l’altro, un’informazione impersonale sul mondo e perfino sulle sofferenze degli altri, non educa alla partecipazione e rende la persona un osservatore estraneo. Questa posizione di «estraneità» ci impedisce di percepire tangibilmente la presenza, l’azione dell’amore divino incarnato nel mondo attuale.
L’insistenza sulle «cattive notizie» per intrattenere lo spettatore, fa sì che non soltanto le parole, ma anche le immagini visive perdano rapidamente il proprio peso e significato. Sempre più frequentemente si limitano a descrivere o illustrare gli avvenimenti, si riducono a stereotipi, vengono usate per la propaganda o per sostenere svariate posizioni ideologiche, ma non aiutano in alcun modo a comprendere o ad approfondire ciò che accade. Jean Baudrillard ha giustamente osservato: «L’informazione diventa sempre di più, il significato sempre di meno»[4].
Per illustrare questa tesi confrontiamo due raffigurazioni: l’affresco della «Discesa degli inferi – Resurrezione di Cristo» del monastero di San Salvatore in Chora, del XIII secolo, e un disegno (caricatura) di un autore contemporaneo sul tema della resurrezione di Cristo. Nei secoli passati la fede veniva intesa come un’azione che supponeva necessariamente una partecipazione, un coinvolgimento, una collaborazione fra Dio e l’uomo. Nell’affresco del XIII secolo questo viene rappresentato con straordinaria espressività: il Signore tende ad Adamo – e in lui a tutta l’umanità, la propria mano; e Adamo mette nella Sua mano la propria, rispondendo all’invito del Salvatore. Oggi invece neppure un avvenimento centrale come la resurrezione di Cristo suscita l’esigenza di partecipare, l’uomo d’oggi si accontenta di osservare stando in disparte, nel ruolo di estraneo.
In questa situazione, neppure la Chiesa ortodossa è sfuggita alla tentazione di estraniarsi e ha organizzato la propria vita e attività sull’esempio delle grandi corporazioni. Anziché sviluppare una riflessione teologica sulle sfide del mondo contemporaneo, nella sua attività di informazione la Chiesa ha preferito mettere l’accento sulle public relations, accettando cioè di usare non solo concetti profondamente secolari quali «rinascita spirituale e morale», «valori tradizionali» e così via, al posto delle parole e dei concetti evangelici, ma anche le tecnologie di manipolazione delle coscienze.
In questo modo, però, contenuto dell’annuncio della Chiesa diventa non la fede viva ma un’ideologia, cioè un insieme di significati, regole e corrispondenti prassi che si possono promuovere come delle merci.
Il profeta Giona
«La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Ebr 4,12).
Dieci anni fa, nel 2004, mentre stavo elaborando il progetto e realizzando il primo festival ortodosso dei mass media «Fede e parola» in Russia, agli organizzatori si pose l’interrogativo: chi scegliere come nostro santo patrono? La scelta fu abbastanza inaspettata, a prima vista: il profeta Giona.
A ogni cristiano ortodosso è ben noto l’episodio della liberazione miracolosa di Giona dal ventre della balena, chiaro archetipo della resurrezione di Cristo il terzo giorno, un’immagine usata dal Salvatore stesso (cfr. Mt 12,39; Lc 11,30-32). Il Signore Gesù Cristo risalì dal «ventre degli inferi», similmente a come Giona uscì dal «ventre della balena». Proprio per questo, poco tempo fa, durante il vespero del Sabato Santo abbiamo letto il libro del profeta Giona. Quest’immagine è entrata anche nell’innografia ortodossa.
Ma nel racconto del profeta Giona possiamo vedere e sottolineare anche un altro aspetto, particolarmente importante, mi sembra, per chi è in qualche modo legato ai mass-media. «Giona è un ottimo esempio della collaborazione creativa, intensa e a volte molto drammatica, esistente tra Dio e l’uomo nell’annuncio della Parola. Il profeta è chiamato a proclamare la Parola di Dio agli uomini, ma nel medesimo tempo non è un intermediario passivo e inerte, bensì partecipa consapevolmente, rivive la Parola attraverso la propria ragione e il proprio cuore. Ma Dio non si aspetta soltanto questo. Più precisamente, è pronto non soltanto a questo, sopporta la debolezza e la resistenza dell’uomo affinché la Parola di Dio diventi totalmente Parola Umana»[5]. Così i profeti dell’Antico Testamento prepararono il mondo al Nuovo Testamento, all’incontro con la Parola che si sarebbe fatta carne (Gv 1,14). La storia di Giona è un simbolo del servizio alla Parola. La Parola è dura, incontenibile, la si vorrebbe fuggire, è pesante da portare; proprio così, gravato dal pesante fardello della Parola, la nostra miniatura rappresenta Giona, ma è impossibile far tacere la Parola, scacciarla dal cuore.
È significativo che il profeta Giona non sia rimasto a lungo il patrono del festival «Fede e parola». Quando nel 2010 l’organizzazione del festival è passata dai giornalisti (redazione del giornale «Messaggero della Chiesa»), ai burocrati e pubblicitari (Dipartimento sinodale per l’informazione), per prima cosa il profeta Giona è stato sostituito da san Paolo. Si faticava a comprendere e ad accettare la sua figura. E anche questo ha un suo significato spirituale e un suo simbolismo: la burocrazia ecclesiastica è distante dall’immagine di un profeta perennemente tormentato, dubbioso e ribelle.
Oggi molti sentono molto più vicino e comprensibile un soggetto «lineare»: sì, Saulo fu un persecutore dei discepoli di Cristo, ma sulla via di Damasco il Signore gli apparve e da allora l’apostolo Paolo annuncia e serve instancabilmente la Parola.
Il cammino dei magi
Il programma del nostro convegno è organizzato in modo tale che tutte le lezioni siano legate ai mass-media e al giornalismo, ma io sono convinto che questo metodo tradizionale per il XX secolo oggi sia insufficiente, e ci limiti moltissimo.
Voglio sottolineare ancora una volta che nella società informatica hanno un ruolo molto importante non solo le parole, ma anche le immagini visive. E la Chiesa è chiamata a prestare la massima attenzione a tutti quelli che creano immagini. Non soltanto agli iconografi e agli architetti che costruiscono chiese, ma anche a pittori, scultori, grafici, a quanti lavorano nel campo del cinema, del teatro, della musica leggera, delle esposizioni e così via.
Dobbiamo farci una domanda importante: come entrerà il nostro tempo nella storia della Chiesa e della cultura mondiale? Il nostro contributo sarà limitato esclusivamente alla copia (sia pur professionale e degna) di modelli di epoche precedenti, oppure i cristiani ortodossi sapranno creare nuove immagini, nuovi stili e correnti animati dalla Grazia, che permettano di parlare di un contributo originale dei nostri contemporanei al tesoro della cultura cristiana? Oggi questa è una domanda aperta.
Le arti liturgiche sono in crisi perché la loro fonte sono la Divina liturgia e l’Eucarestia, ma la riflessione su come la Chiesa veda e intenda oggi la liturgia, come pure il ruolo dei vescovi, dei sacerdoti e dei laici, è solo all’inizio. Almeno per noi in Russia. Sono molte più domande che non le risposte. Se partecipiamo passivamente alla liturgia e ne comprendiamo poco la struttura e il contenuto, è ingenuo supporre che le arti liturgiche, fondate sulla visione e comprensione della liturgia, possano fiorire.
Inoltre, fin dove la Chiesa ortodossa lascerà spazio alla produzione di massa di articoli religiosi di consumo, dove in nome del «miglior» (più basso) prezzo i produttori sacrificano senza rimpianto non solo la qualità ma anche i canoni e perfino la tradizione ortodossa, mentre chiese e negozi di articoli religiosi distribuiscono questa merce senza pensarci due volte?
Questi problemi sono direttamente connessi alla dottrina della Chiesa. I problemi della teologia dell’immagine e della venerazione delle icone sono forse esauriti dal Settimo Concilio Ecumenico? La massiccia diffusione di articoli sacri di scadente qualità può far perdere non solo la devozione davanti alle immagini sante, ma anche la capacità di leggere e capire il linguaggio dell’icona, le immagini dell’innografia ortodossa, la simbologia del tempio. Nel mondo ortodosso potrebbe sorgere una nuova iconoclastia. Vorrei sbagliarmi, ma già esistono i presupposti per questo.
Oggi ci sono molti artisti e uomini di cultura pronti a dialogare con la Chiesa. Ma la Chiesa li invita a questo dialogo? Quali compiti la Chiesa può indicare loro, come può coinvolgerli?
La nostra esperienza di organizzatori di mostre d’arte cristiana a Mosca indica che oggi la Chiesa ortodossa possiede una propria arte contemporanea. Ma occorre avere sufficiente coraggio, senno e saggezza da respingere i discorsi secondo cui l’arte sacra consiste esclusivamente nel copiare modelli di epoche precedenti. La tradizione viva dell’arte sacra è rappresentata da numerosi artisti, iconografi, registi cinematografici e teatrali, musicisti, compositori, scultori di valore… Purtroppo qui non abbiamo il tempo di elencare neppure i nomi più famosi.
Negli ultimi anni in diversi paesi si è formata un’intera corrente che Irina Jazykova, una degli esperti più noti di arte sacra, ha chiamato «icona d’autore». Non si tratta ormai più di esperimenti, ma di un ampio ventaglio di stili originali realizzati da iconografi, scultori, ricamatrici che oggi lavorano per le chiese, non soltanto in Russia ma anche in altri paesi, come la Georgia, la Serbia, la Gran Bretagna.
La Chiesa ortodossa ha bisogno non soltanto di un’associazione internazionale di giornalisti ortodossi (peccato che finora non sia stata costituita) ma anche di un’associazione di artisti e critici d’arte cristiani. Abbiamo bisogno di mostre collettive non solo di collezioni museali di icone bizantine e russe antiche, ma anche di arte cristiana contemporanea: icone, ricami, sculture, quadri, progetti architettonici, grafica.
È questo il compito che in Russia si pone l’Associazione di sostegno alla cultura cristiana contemporanea «Artos» (www.artos.name). È un’organizzazione giovane, sorta a Mosca nell’autunno del 2013, ed è unica nel suo genere. Riunisce non soltanto artisti, ma anche tutti coloro che comprendono la necessità di sviluppo dell’arte cristiana contemporanea.
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La collaborazione tra la Chiesa, gli artisti e i giornalisti potrebbe fondarsi su queste righe del vangelo di Matteo: «Al vedere la stella essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono il loro scrigno e offrirono oro incenso e mirra» (Mt 2,10-11). All’inizio della collaborazione è importante che sorga il desiderio di offrire il proprio dono a Cristo. Ma questo non basta. I magi non si limitarono a portare i propri doni al Dio Bambino. Essi, come dice la Scrittura, «prostratisi lo adorarono».
In altre parole, l’offerta dei doni è inseparabilmente legata all’adorazione del Salvatore. È disposto l’artista, lo scultore, il giornalista, ad adorare il Salvatore sinceramente, professando la propria fede, mentre offre il proprio dono? Se sì, su questa strada è possibile sviluppare una cultura cristiana.
[1] Basandosi, ad esempio, sulla concezione di iconicità di Valerij Lepachin.
[2] Basandosi, ad esempio, sugli articoli di Aleksandr Filonenko e sul mio corso «La Chiesa nella società informatica. Comunicazioni teologiche».
[3] Basandosi, ad esempio, sulle opere di David Hart, La bellezza dell’infinito. Estetica della verità cristiana, e di padre Ioann Panteleimon Manussakis, Dio dopo la metafisica. Un’estetica teologica.
[4] Jean Baudrillard, In the Shadow of the Silent Majorities, or, The End of the Social and Other Essays, News York, Semiotext, 1983, p. 95.
[5] Prot. Aleksandr Sorokin, Prorok Iona (Il profeta Giona), saggio inedito , archivio dell’autore.
Di Sergej Čapnin
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